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Martedì, 28 Aprile 2020 17:39

Non torniamo alla normalità

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Il 10 marzo, quando eravamo ancora nelle prime fasi di isolamento sociale, esprimevamo, in questa stessa rubrica settimanale, l’auspicio che l’arrivo di questo virus sconosciuto avrebbe potuto farci prendere coscienza dei tanti errori che, come comunità globale, stavamo commettendo.

Già allora nonostante sembri passato un secolo scrivevamo: «… è ormai chiaro a tutti che gli stili di vita che abbiamo adottato fino allo scoppio di questa epidemia dovranno modificarsi e in alcuni casi anche radicalmente» sostenendo subito dopo che: «questo dovrebbe farci riflettere, nel prossimo futuro, sui valori che vogliamo porci come obiettivi … riportando la politica a prevalere sugli interessi economici e non viceversa come accaduto negli ultimi decenni».

Politica ed economia sono le due leve sulle quali si dovrà lavorare per rendere possibile un cambiamento radicale della società. Come sosteneva l’economista e matematico rumeno Georgescu-Roegen laureato alla Sorbona di Parigi, inventore della Bioeconomia (economia ecologica) e della teoria delle decrescita, le alternative per un cambio di paradigma sono sostanzialmente due: «una catastrofe di dimensioni planetarie che possa cambiare il sistema di preferenze o una variazione consapevole del sistema di preferenze che possa evitare la catastrofe». E’ evidente che non avendo preso in considerazione per tempo la seconda ipotesi, anche se ce ne sarebbe stato tutto il tempo, Georgescu-Roegen sviluppava infatti queste teorie negli anni ’70 del secolo scorso, oggi ci troviamo drammaticamente calati nella prima delle due possibilità. Ora si tratta di capire come uscire da questa crisi largamente annunciata, ma oggi, a due mesi dall’inizio dell’emergenza, la politica, anche locale, in quale direzione si sta muovendo?

Ciò che apprendiamo tutti i giorni dai mass media è disarmante. Neanche in un momento come questo la gran parte della classe politica sembra capace di andare oltre vecchi schemi esclusivamente finalizzati a guadagnare, o per lo meno non perdere, consenso. Ed è tutto una gretta e limitata accusa alla parte politica avversa, ma mai che si senta una parola verso un progetto politico-economico-sociale in grado di prospettare una transizione dall’attuale modello economico neoliberista, basato sull’utilità individuale, ad uno imperniato sull’utilità collettiva. Che detto in parole povere vuol dire mettere da parte una visione atomistica e individualista della società basata sul denaro, tipica del capitalismo, per passare ad una forma di economia più adeguata alla società multietnica e globale del terzo millennio. Per dirla con le parole dell’economista britannico Tim Jackson:«che fornisca le capacità per prosperare all’interno dei limiti ecologici che può essere definita attraverso semplici principi: l’impresa come servizio, il lavoro come partecipazione, gli investimenti come impegno verso il futuro e il denaro come bene sociale». Tutti principi che ci fanno capire che l’economia non dovrebbe essere un fine, come accade ora, ma un mezzo per raggiungere una prosperità collettiva distribuita in maniera equa a tutela delle fasce più deboli della popolazione mondiale. Non va dimenticato infatti, ma evidenziato, che il neoliberismo punta a convincerci subdolamente che siamo responsabili a livello individuale della nostra “incapacità” di sopravvivere alla scarsità.

Ragionando sui numeri derivanti dal coronavirus vediamo che ad oggi sono morte in tutto il mondo all’incirca 200.000 persone e questo sta destando molto scalpore perché colpisce Paesi ricchi che mai avrebbero potuto immaginare una scenario del genere definito dai più come apocalittico. Ma se andiamo a leggere qualche dato “ufficiale” facilmente reperibile in rete, ma poco presente o quasi introvabile nei media mainstream, possiamo vedere che la FAO stima che ogni giorno 25mila persone muoiono di fame, mentre l’Unicef comunica che tre milioni di bambini nel mondo muoiono ogni anno per malnutrizione. E tralasciamo di analizzare altri numeri sui decessi per incidenti stradali o sul lavoro, per inquinamento, per guerre e omicidi, per deforestazioni o per eventi atmosferici estremi, per patologie non covid. Come ormai nessuno si ricorda più dei deceduti per la SARS, l’Ebola, la Mers, l’AIDS e via discorrendo. Tutto questo ci fa capire che non è più possibile fare finta di nulla, che il Pianeta non è una infinita riserva di materie prime e che il dolore, la sofferenza e la morte sono gli stessi per tutti gli esseri umani sia che si tratti di un plurimiliardario texano o un oligarca russo, che di un’orfana di una bidonville di Nairobi, di un bambino soldato del Sud Sudan o di una schiava sessuale minorenne thailandese.

Un vero cambio di paradigma deve partire dal riconoscere che l’uomo non è il “proprietario” della Terra, ma un suo abitante come tutti gli animali, i vegetali e tutte le altre forme di vita, virus e batteri compresi. Come sostiene Ingen Andersen, direttrice generale dell’UNEP, Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite: «Il virus è un messaggio che la natura ci sta inviando. Ci sono troppe pressioni sui sistemi naturali; essendo intimamente interconnessi con la natura, se non ce ne prendiamo cura, non possiamo curare noi stessi».

Molte persone sentono oggi l’esigenza di modificare le proprie abitudini per evitare il ripetersi di emergenze come questa, ma i potentati economici e i poteri forti che decidono oggi le sorti del mondo stanno già spingendo per un veloce ritorno alla “normalità” come se nulla fosse accaduto. Dovremo impegnarci in prima persona e stare in guardia perché il cambiamento non venga impedito in ossequio a quel motto che dice: “Non torniamo alla normalità, perché la normalità è il problema”. E dovremo farlo tutti prendendoci ognuno una parte di responsabilità tramite una presa di coscienza civile e collettiva, questa sì individuale, così come si prospetta nelle profetiche parole del dottor Astrov, nello zio Vanja di Anton Čechov, scritte centoventi anni fa: «Le foreste si fanno sempre più rade, i fiumi si seccano, la selvaggina si è estinta, il clima è guastato, e di giorno in giorno la terra diventa sempre più povera e più brutta. Tu mi guardi con ironia (…) ma quando passo vicino alle foreste contadine che ho salvato dal taglio fraudolento, quando sento stormire la mia giovane foresta piantata dalle mie mani, io mi accorgo che il clima è un poco anche in mio potere e che se fra mille anni l’uomo sarà felice, ne avrò un poco anch’io il merito».

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Francesco Comotto

Consigliere Comunale a Ivrea dal 2013.

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