Questa emergenza sanitaria ci ha messo di fronte alcune problematiche che già conoscevamo, ma che facevamo finta di non vedere convinti che “tanto prima o poi tutto s’aggiusta”. Gli ospedali non in grado di dare assistenza a tutti coloro che ne facevano richiesta, la mancanza di banali mascherine, di ventilatori polmonari, di tamponi (ancora oggi) ci hanno fatto capire a muso duro che così non si poteva più andare avanti.
Il lockdown ci sta però lasciando alcune certezze la più rilevante delle quali è quella della necessità incontrovertibile di una svolta ecologica epocale e globale. Si è capito che ciò che molti scienziati sostengono da anni riguardo i rischi per la stessa sopravvivenza del genere umano, causati da un eccessivo sfruttamento della risorse naturali e correlato con una crescita demografica esponenziale, sono tragicamente reali e attuali. Ci sono ormai innumerevoli studi e ricerche che stanno quantificando danni e benefici causati dal covid-19; non c’è che l’imbarazzo della scelta, ma tutti conducono nella stessa direzione: la necessità di un cambio degli attuali stili di vita. In un recente articolo del Financial Times, ripreso e tradotto su Internazionale, appare un dato, su tanti, che può aiutarci a immaginare l’enormità del problema dell’inquinamento atmosferico: “un’analisi del traffico aereo a partire dai dati di Flightradar24 rivela che nel mese di marzo le emissioni dovute alle compagnie aeree sono calate del 31 per cento (circa 28 milioni di tonnellate di anidride carbonica in meno), l’equivalente della scomparsa di circa sei milioni di veicoli dalle strade del mondo per un anno intero”. Come detto è un numero tra i tanti, ma se imparassimo a leggere questi numeri con maggior attenzione e senza pregiudizi su base ideologica probabilmente la nostra percezione sullo stato di salute del Pianeta muterebbe, e di conseguenza il nostro agire quotidiano, soprattutto se traguardiamo a quel futuro nel quale dovranno vivere le nuove generazioni.
Rispetto all’enormità di questi dati scatta inevitabilmente un senso di inadeguatezza nei confronti di problemi talmente grandi da non farci intravedere possibilità di cambiamento reale e questo porta spesso alla rassegnazione che è una delle piaghe del terzo millennio. Quante volte ci sentiamo dire: “cosa posso fare io per risolvere problemi così grandi?” Molto, verrebbe da dire, ma innanzi tutto non stare fermi e fare qualcosa anche se all’apparenza piccola e insignificante: differenziare bene i rifiuti, muoversi di più a piedi o in bicicletta, acquistare direttamente dai produttori locali e nei negozi di prossimità, leggere di più e stare meno connessi, ecc.
Se una cosa l’emergenza coronavirus ce l’ha insegnata è che di fronte alla salute e alla vita non ci sono ricchezze materiali o status sociali che possono dare garanzie: o si rema tutti dalla stessa parte o si affonda tutti.
Lo stesso discorso fatto per i singoli cittadini vale anche per chi occupa ruoli di responsabilità nella società, sia per ciò che riguarda il settore privato che quello pubblico. Fortunatamente esiste e pare in crescita una sensibilità dell’imprenditoria privata verso una maggior sostenibilità economica, sociale, ambientale della propria filosofia aziendale.
Per ciò che riguarda il pubblico siamo invece maledettamente in ritardo e i segnali di un drastico ripensamento purtroppo sono ancora troppo sporadici e limitati a qualche singolo esempio quasi sempre di stampo locale. Ed è proprio da lì, dal locale, che potrebbe partire una rivoluzione perché sindaci e amministratori locali hanno ottimi margini di manovra per dare vita a politiche pubbliche virtuose che, a cerchi concentrici, si possono diffondere sul territorio.
Per ciò che riguarda la nostra città da anni, già con la precedente amministrazione, abbiamo sviluppato proposte concrete in tal senso riscontrando purtroppo una scarsa visione e una mancanza di coraggio dell’esecutivo dovuta probabilmente a un’errata interpretazione del consenso popolare per la quale si ritiene più redditizio non modificare troppo le abitudini delle persone.
Il tema della mobilità sarà centrale nel futuro prossimo. Perché ad Ivrea non esiste e non ci si dota di un Piano di Viabilità Sostenibile che ribalti il concetto di mobilità mettendo al centro pedoni, monopattini e biciclette? E’ in corso di redazione una variante generale al piano regolatore, perché non si mette questo punto tra quelli prioritari e imprescindibili? Non si può più rispondere all’aumento dei veicoli che entrano in città aumentando le corsie per le automobili, ma riducendole, mettendo sullo stesso piano chi si muove con mezzi non inquinanti e le auto, creando parcheggi di interscambio gratuiti agli ingressi della città e sviluppando una rete di trasporto pubblico ecologica ed efficiente.
Gli ultimi inverni sono stati drammatici dal punto di vista dell’inquinamento atmosferico. Molti studi ci stanno confermando che il particolato e l’inquinamento più in generale sono stati una causa e un vettore del covid-19. Dati epidemiologici ufficiali ci dicono che ogni anno in Italia muoiono circa 60.000 persone per i PM 2,5 e circa 15.0000 per il biossido di azoto oltre una decina al giorno per incidenti stradali. Perché questi numeri non ci fanno gridare allo scandalo al pari degli oltre 30.000 decessi per il coronavirus?
Nell’era post-covid servirà anche rilanciare l’economia locale ad esempio investendo sul turismo di prossimità, slow, naturalistico, eno-gastronomico, per famiglie e amanti dell’outdoor puntando sulle bellezze naturali che ci circondano e sostanziando, anche con risorse, il costituendo Parco dei 5 Laghi. C’è molto da fare, ma servirà coraggio e intraprendenza. Non c’è tempo da perdere, bisogna cogliere l’attimo e abbandonare vecchie liturgie della politica delle quali purtroppo anche l’attuale Amministrazione pare non riuscire fare a meno.