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Domenica, 10 Marzo 2019 22:46

I nuovi barbari

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La sentenza della Corte d’Appello di Bologna che ha dimezzato la pena, da 30 a 16 anni, all’omicida, ex compagno da poco più di un mese, di Olga Matei ci sbatte per l’ennesima volta in faccia il livello di imbarbarimento della società del terzo millennio. Tutti abbiamo letto che l’attenuazione della pena è stata giustificata dal giudice per il fatto che si è trattato di una “tempesta emotiva” determinata dalla gelosia. Ciò che sconvolge è che questa aberrazione non è uscita da quattro chiacchiere al bar, ma dall’aula di un Tribunale della Repubblica.
E’ anche vero che viviamo in un Paese dove fino al 1981 vigevano le disposizioni sul “delitto d’onore”, con l’art. 587 del Codice Penale che recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell'atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d'ira determinato dall'offesa recata all'onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni”, una pena irrisoria per chi commette un omicidio.

La sensazione, ora confermata anche da una sentenza assurda, è che ci stiamo in qualche modo “abituando” a questo tipo di violenza verso i soggetti più deboli che spesso non hanno alcuna possibilità di difendersi e si parla di donne, ma anche di migranti, di minori, di senzatetto, di malati, di anziani, ecc.
Va anche detto che l’uccisione è solo la punta di un iceberg fatto di continue violenze e vessazioni che nei casi estremi possono portare a situazioni di profondo disagio psicologico che può portare i soggetti senza reti sociali di aiuto e di supporto a compiere dei gesti estremi.
In Italia ogni settimana vengono uccise in media tre donne per “femminicidio”; termine coniato dall’antropologa Marcela Lagarde negli anni ’90 del secolo scorso che ne dava questa definizione: “La forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una posizione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa”.
Gli ultimi casi in Italia sono di qualche giorno fa e non hanno distinzione geografica andando da Messina a Napoli a Milano per arrivare fino a venerdi 9 marzo a Torino con una donna, ora in prognosi riservata, colpita dal marito con numerose coltellate tra le mura domestiche.
Nei primi dieci mesi del 2018, secondo un rapporto Eures, si sono verificati 114 casi di femminicidio in Italia, una vittima ogni due giorni e mezzo.
Dalla banca dati “Pitagora” della Polizia di Stato, predisposta dal gennaio 2017, si apprende che sono stati registrati per violenza di genere, violenza domestica e stalking: 210 arresti, 340 denunce, 125 allontanamenti da casa, 18 ammonimenti del questore. L’aggressore per l’86% risulta essere maschio, con una età media di 42 anni, per il 69% di nazionalità italiana; la vittima per l’83% è femmina con 42 anni di età media.
Come si diceva in precedenza il problema maggiore da affrontare è l’indifferenza.
Ogni giorno si apprende dai telegiornali di gravi fatti di cronaca nera, ma pare molto affievolita la nostra capacità di indignarsi e di reagire alla violenza dilagante e alla stato di guerra permanente entro il quale viviamo a livello globale. Molti giustificano questa incapacità a reagire con l’impossibilità da soli di poter fare qualcosa, ma proprio qui si possono trovare la chiave di volta e la speranza: se è vero che singolarmente non possiamo fare granché è altrettanto vero che se cominciassimo a ragionare in termini di comunità, impegnandoci in un processo collettivo in primo luogo culturale, forse la situazione potrebbe cominciare a cambiare. Come tutti i processi culturali tutto questo necessita di tempo però se non si comincia mai non si potranno mai vedere dei risultati e la barbarie tornerà a caratterizzare la nostra società con un salto triplo all’indietro nel tempo.
In questa partita di civiltà ovviamente dovrebbe ricoprire un ruolo determinante la politica, ma per fare questo la stessa dovrebbe smettere di ragionare solamente in termini personalistici e di mera gestione di un potere fine a sé stesso. Si dovrebbe ritrovare la capacità di discutere e di ricercare delle soluzioni condivise mentre oggi le decisioni vengono quasi sempre prese con scelte aprioristiche spesso condizionate dall’ideologia. Le scelte a volte vengono giustificate da campagne mediatiche mirate, finalizzate a destabilizzare la capacità delle persone nel dare vita a processi politici partecipati e condivisi. Ciò che è grave in questo senso è la pervicacia nel non riconoscere mai i propri errori anche se detenendo ruoli di grande responsabilità e rilievo si rischia di mettere a repentaglio la vita delle persone e dello stesso pianeta sul quale viviamo.
Una soluzione possibile potrebbe essere quella di cominciare a muoversi a livello locale creando comunità di persone, valori, obiettivi comuni che potrebbero agire sganciandosi dalle ingessate dinamiche nazionali e internazionali se non altro perché i decisori politici locali li possiamo tenere sotto controllo ed eventualmente collaborare con loro.

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Francesco Comotto

Consigliere Comunale a Ivrea dal 2013.

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